Ti è mai capitato di dover stravolgere i tuoi piani di viaggio? A me si, e la reazione, di primo acchito, non fu certamente delle migliori. Senti un pò cosè accaduto!
Sei anni fa ero partito con l’intenzione di aderire a un progetto, ma per cause di forza maggiore mi sono trovato a trascorrere tre settimane in una famiglia di Lomé, in Togo. Mettermi il cuore in pace e metabolizzare la prospettiva di vedersi mandare all’aria quanto programmato in un mese di viaggio non fu affatto semplice.
Erano passati pochi giorni dal mio arrivo e già mi sentivo frastornato: con un piede in famiglia e uno nella fossa. Avrei dovuto accettare le condizioni così come stavano e rinunciare a parte del progetto oppure prolungare il soggiorno nel Paese. Che fare? Fortunatamente, un breve consulto con la mia coscienza mi aiutò a chiarirmi le idee: optai per il forte desiderio di rimanere, la soluzione che più rispecchiava lo stato d’animo del momento.
Con una rapida telefonata alla Brussels Airlines, la compagnia aerea con la quale ero partito, risolsi velocemente l’inghippo: furono sufficienti 90 euro per effettuare il cambio data e posticipare di due mesi il rientro. In quel momento sembrava proprio che i miei piani di viaggio iniziassero a prendere la giusta piega. Dirti che mi sentivo al settimo cielo, è del tutto superfluo!
Finalmente rigenerato, entusiasta e con la mente sgombra da nubi, ero dunque pronto a tuffarmi in un flemmatico vortice di quotidianità insieme ai membri di Ajvsm, l’associazione locale partner di Oikos in Togo.
uno yovo a lomé: l’associazione ajvsm
Komi, il presidente, Akouvi, sua madre e Didier, un loro fido collaboratore, erano i componenti di un’allegra “brigata allo sbaraglio”, un pò squinternata ma piuttosto ferrata su come guadagnare soldi in men che non si dica. Per vitto e alloggio, infatti, mi chiesero trecento euro al mese…che da quelle parti non sono noccioline!
Akouvi, donna dalla corporatura robusta, era una padrona di casa dal sorriso smagliante e una cuoca capace di trasformare semplici prodotti della terra in gustose prelibatezze. Grazie alle sue comprovate competenze culinarie, la tradizione gastronomica nostrana spiccava il volo. In assenza di un piano cottura si arrangiava come poteva, con un fornellino a gas ricaricabile.
Komi, invece, era un ragazzo raggiante sulla trentina, impiegato nel settore pubblico. Era l’unico ad avere un lavoro. Percepiva un salario non sufficiente a sostenere finanziariamente un’intera ciurma composta da cinque figli disgraziatamente avuti da quattro diverse donne. Aveva diversi amici che mi coinvolgevano spesso in serate danzanti a ritmo di djembè, incontri tra amici al Bar Le Vainqueur, il punto di ritrovo per molti giovani del quartiere e festose domenica in chiesa, dove, per l’occasione, sfoggiavo il mio abito creato su misura da un abile sarto.
Didier, disoccupato, era la mia ombra, il mio punto di riferimento. Mi accompagnava alle boutiques intorno casa a fare piccoli acquisti personali o agli internet cafè con la vana speranza di riuscire a connettere il mio tablet a un wifi. Questi erano anche modi per conoscersi, integrarsi, fare nuove amicizie e spendere qualche spicciolo per fare girare un’economia disastrata, nonchè opportunità di degustare succose ananas e deliziose noci di cocco accompagnate da un bel bicchiere di sodabi, un liquore locale che si ottiene dalla distillazione del vino di palma.
Uno yovo a lomé: adidogomé, il mio regno
Adidogomè, il quartiere in cui alloggiavo, alla periferia di Lomè, a 10 km dal centro città, era il mio regno. Si trovava in un’area dove le strade erano grossi cumuli di sabbia privi di carreggiate, marciapiedi e toponomastica. Spostarsi con i mezzi di trasporto locali era una sfida da prendere con le molle.
Lungo le vie primeggiavano case e fabbricati grezzi provvisti di riserve d’acqua, ristoranti semideserti, negozi da parrucchiere gremiti di fanciulle in cerca di un nuovo look da sfoggiare, fabbri e falegnami che esponevano merce e meccanici alle prese con macchine scassate da aggiustare.
I bambini che incontravo lungo la strada gridavano a squarciagola “Yovo! yovo!”, una parola che nella lingua degli Ewe, un’etnia che popola il sud del paese, identifica l’uomo bianco. Aggrappati al grembo delle madri intente a smerciare carbone in contenitori di latta, si agitavano per attirare la mia attenzione. Timidamente tendevano la mano in cerca di un “cinque”, di un segno che appagasse la loro ingenua sete di approvazione.
Ad Adidigomè condividevo un “alveare edilizio” equipaggiato di attrezzature e oggetti spartani che se in Occidente erano ormai superate, là, tuttavia, rasentavano la normalità: un pozzo da cui attingere l’acqua necessaria per cucinare e lavarsi, una postazione in muratura adibita a doccia, da farsi rigorosamente “all’africana”, con un secchio d’acqua e sapone e un buco di cemento nel quale espletare i bisogni fisiologici.
La mia era una stanza come tante altre, forse solo un pò originale. Ricoperta da un sottile tetto di lamiera che permetteva la sole di penetrare vita natural durante, disponeva di un materasso imbottito di chiodi, una zanzariera, una finestra a tendina e tanti piccoli sacchetti di plastica contenenti acqua potabile, un graditissimo regalo di benvenuto.
uno yovo a lomé: i MIEI giorni in famiglia
Trascorrevo giornate intere a familiarizzare con i nuovi costumi, a litigare con l’elettricità scostante e a lavare a mano vestiti sudici e sudati. La lavatrice, purtroppo, era un lusso che in pochi si potevano permettere.
Non mancavano le chiacchierate, gli scambi di opinioni, le domande indiscrete del tipo: “Sei sposato? Hai figli? oppure “Perchè non ti sposi una bella ragazza africana?” Yovo e single, a questa età, non faceva che crescere il desiderio di matrimonio di alcune giovani donzelle alla ricerca di un bancomat in carne e ossa da spennare. La gente mi scrutava, sorrideva, sembrava affascinata dall’interesse che provavo nell’interagire con chiunque mi si avvicinasse e, con una scusa banale, attaccava bottone. Non ero di certo un marziano, ma vedere yovo ad Adidogomé era una rarità.
Più passavano i giorni, più mi rendevo conto che iniziavo a far mio uno stile di vita accomodante che se per me era sinonimo di conoscenza di una nuova cultura, per molti togolesi significava dover rinunciare alla possibilità di fare progetti o di sognare in grande. E non sarebbe potuto essere altrimenti al cospetto dell’indigenza devastante che affliggeva – e tuttora affligge – il Paese.
Tuttavia, sebbene avessi faticato ad accettare di buon grado lo stravolgimento dei miei piani di viaggio, com’era giusto che fosse, le tre settimane in famiglia non furono affatto tempo perso. In fondo, per chi, come me, ha sempre desiderato circondarsi di persone, ritrovarsi a spartire un’alveare edilizio con perfetti sconosciuti che andavano e venivano per portare un saluto, una buona o una cattiva novella o saldare un piccolo debito rimasto in sospeso con Akouvi, era diventato un modo come un altro per rimpiazzare, momentaneamente e in modo piacevole, il progetto solidale a cui tanto tenevo.
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